Domenica 1 maggio in un paese dell'Irpinia, ho avuto la possibilità di parlare con Alberto Granado, l'uomo che insieme ad Ernesto Guevara attraversò l'America Latina a bordo di una motocicletta. Il viaggio dei due, che poi è diventato un libro e un film, non racconta un'ideologia ma un sogno: quello di veder sparire la povertà dai paesi del Sud America, di veder sorgere ospedali per curare i malati, di non vedere più differenze abissali tra gli esseri umani.
Il simpatico ottantenne ha mostrato tanta cordialità e disponibilità. Accompagnato dal suo bastone, Granado ha stretto la mano alla gente della piazza, è entrato in un bar a rinfrescarsi prima di sedersi al tavolo preparato per il dibattito.
In realtà più che un dibattito si è trattato di un tranquillo colloquio tra lui e la gente, che numerosa ha occupato tutte le sedie e ha affollato l'ampia piazza del paesino irpino.
Tutto ha inizio alle cinque del pomeriggio. Vivo questo momento, emozionato, cosciente di ascoltare la testimonianza di chi ha cercato di dare anni fa, una risposta a problemi e a conflitti che oggi viviamo ancora. I lebbrosari di allora, amorevole e spietata sala di attesa, per chi poi si accomodò dal dottore per curare mali più grossi, ci sono ancora. Nelle metropoli del sud del mondo, nelle nostre periferie, e nelle agenzie di lavoro interinale, dove si elemosinano pezzi di futuro. Penso che si dovrebbe ripartire da qui come fecero i due ragazzi argentini... ma mentre inizio a riflettere Alberto è arrivato alla sua sedia di plastica bianca.
Pochi minuti, e i padroni di casa lasciano posto all'ospite. Lucido, sorridente, uno spagnolo forte e rauco ci porta indietro, in anni importanti. Sono emozionato. "Sono contento di vedere così tanta gente, e soprattutto di vedere dei ragazzi", esordisce con un tocco ecumenico, poi continua a ringraziare. E' un esperto comunicatore.
All'improvviso si ferma, guarda l'interprete, e alza la voce: "ora basta parlare di me, chiedetemi ciò che volete sapere davvero, fatemi parlare di Ernesto Che Guevara".
C'è subito una domanda per Alberto. Inizia Don Vitaliano della Sala, prete irpino, habituè del dibattito politico e culturale attuale. Chiede a Granado se vi sia secondo lui un legame ideale tra le azioni politche e di lotta del comandante argentino e il movimento zapatista.
Alberto parla della povertà incontrata e scoperta nel viaggio attraverso l'America Latina e afferma che quel dice Don Vitaliano a proposito del movimento Zapatista è in parte vero; la battaglia cominciata da Guevara per il sollevamento materiale e morale di quelle terre vede una continuazione in questo come in altri movimenti più o meno noti.
Continua, rispondendo alla seconda domanda di Don Vitaliano, che chiedeva perché il viaggio vide come punto di arrivo ma anche di svolta un lebbrosario. Dice: "perché un lebbrosario a 1000 chilometri da Buenos Aires era l'unico posto dove due studenti come noi non dovevano chiedere il permesso al politico di turno per poter parlare alla gente", e poi continuando "...perché i lebbrosi non venivano considerati persone, perché se ad un lebbroso dai una parola di conforto lui ti risponde con una tonnellata d'amore". Il pensiero di Granado risulta chiaro, "la globalizzazione non è un fenomeno negativo, ma va globalizzata innanzitutto la lotta alla povertà".
Una delle domande ad Alberto Granado lo interroga chiedendo se senza l'embargo USA la situazione a Cuba e in altri paesi non sarebbe potuta essere migliore. Alberto concordando col suo interlocutore risponde "ti sei fatto una domanda e ti sei dato una risposta figliolo".
Arrivano altre domande. Purtroppo quelle che io avrei evitato. La prospettiva della rivoluzione cubana, la pressione del governo americano in quegli anni, ecc... Certo interessanti ma rintracciabili in un buon manuale di storia.
Un altro intervento interessante chiede al medico argentino se il ritratto che il libro e il film fanno di lui, di "guida" per Guevara corrisponda alla verità e cosa si può fare nel quotidiano per trasferire le parole della politica ai fatti concreti. Granado risponde che di fronte ad Ernesto lui si sentiva alla presenza di una persona dotata di un intelligenza al di sopra della norma e cercava a volte di far presente i suoi dubbi di persona normale; ha aggiunto anche che non era d'accordo col suo amico riguardo all'idea che il ricorso alla guerriglia armata fosse necessaria comunque.
Faccio la mia domanda: "Lei ha avuto la fortuna di poter raccontare tante volte la sua avventura con Ernesto ed il significato di quel viaggio. Il suo amico invece non ha avuto questa fortuna. C'è stato mai un momento nella sua vita in cui ha pensato che il sacrificio di Ernesto non era una cosa inevitabile, non ha mai pensato che il sogno che avete inseguito in sella alla vostra motocicletta si sia poi trasformato in qualcosa di diverso? Ovvero, non crede che molta gente che incontra in giro per il mondo sia forse prigioniera di un sogno (distorto)?"
L'interpete, capelli corti di ordinanza, si toglie i suoi occhiali scuri. Il mio dignitosissimo spagnolo mi dice che non riporta esattamente la domanda.
Infatti. Alberto afferra il microfono e dice "No, non sono pentito di quello che ho fatto, lo rifarei di nuovo !" Ma subito si fa chiarezza e Alberto ritorna a sorridere e dice che Ernesto Guevara non ha cercato il sacrificio, che ciò è avvenuto perché il Che è stato tradito, da certe persone e dalla sue insicurezze. Infatti, raccontando un episodio narra come il Che quando si sentiva circondato da persone vili e infedeli, perdeva di lucidità e commetteva errori, che lo portarono alla cattura... Mi guarda e aggiunge "è chiaro avrei voluto il mio amico vivo e non il rivoluzionario morto".
Vittorio Grasso
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