LA REPUBBLICA -
Il conto alla rovescia per il Partito Democratico è iniziato a Orvieto. Fra un anno sapremo se era un'altra araba fenice. L'impressione è che stavolta facciano sul serio perché non hanno alternative. Ds e Margherita sono stati gli sconfitti della vittoria di primavera, conquistata soltanto grazie a una lista unitaria alla Camera gravida di cento rinvii e mille dubbi. Il Partito Democratico è dunque per gli eletti un obbligo elettorale. Per gli elettori è invece una necessità storica. Fra l'una e l'altra concezione corre una bella differenza di sentimenti, idee e progetti. In parallelo, esistono due modi di arrivare al Partito Democratico.
Come sembrano volere i vertici di partito e come chiede la maggioranza del popolo di centrosinistra.
Il primo sistema procede per somma e aggregazione di ceto politico. Si tratta di assemblare la macchina Ds con quella della Margherita, più un pugno di prodiani, una spolverata di intellettuali organici, il programma di almeno trecento pagine, una serie di congressi con le ritualità del caso, infine un'orgia di distinguo per arrivare all'esatta riproduzione dei vecchi partiti in nuove correnti. È il modo in cui la politica italiana ha sempre organizzato le fusioni fra partiti, genere "a freddo", dai tempi del Psu ai recenti casi di liste personalizzate Fini-Segni, Di Pietro-Occhetto, Pannella-Boselli. Ed è la ragione per cui non hanno mai funzionato.
L'altro sistema è di creare un partito davvero nuovo, aperto, capace di cambiare il modo di comunicare e di coinvolgere i cittadini, gli stessi criteri di accesso alla politica e di selezione della classe dirigente. Un soggetto in grado di chiudere la lunga stagione della lotta fra politica e antipolitica. In definitiva, sarebbe il primo partito non solo d'Italia ma forse d'Europa a prendere atto che il Novecento è finito. Inutile dire che la prima operazione è piuttosto semplice, quasi scontata. Per la seconda viceversa occorre farsi venire qualche idea, anzi molte. Perché allora i leader del centrosinistra dovrebbe compiere questo sforzo creativo? Probabilmente perché non hanno alternative. Certo, i tempi sono strettissimi. Il conto alla rovescia per il Partito Democratico parte in ritardo di dieci anni. Avrebbe dovuto cominciare non a Orvieto nel 2006 ma a Gargonza nel 1996, quando l'Ulivo venne sepolto dal "ritorno ai partiti".
D'altra parte forse D'Alema aveva qualche ragione a sostenere che i tempi non erano maturi. Le ricerche dicono che i valori e i linguaggi, in politica e non solo, cambiano ogni trent'anni. Il sistema di partiti uscito dal dopoguerra in Italia ha retto, senza modifiche sostanziali, fino alla fine degli anni Settanta. Condiviso da tutti, cattolici e laici, liberali e comunisti, perfino dagli extraparlamentari di destra e sinistra che in fondo si richiamavano al fascismo e alla Resistenza. Il compromesso storico è stato l'apoteosi ma anche la fine di quell'era cominciata con il Cln e la Costituente.
Dalla fine dei Settanta la partitocrazia comincia ad andare in crisi. Il primo a intuirlo è Berlinguer con la "questione morale". Il primo a trarne le conseguenze è Bettino Craxi che imprime al vecchio partito socialista una modificazione genetica, in senso "modernista" e dunque personalista. La Dc comincia a sciogliersi in una destra e una sinistra, i comunisti si mettono in marcia verso il modello socialdemocratico, la destra mira già allo sdoganamento, spunta la "questione settentrionale". Tangentopoli, l'avanzata prima leghista e poi berlusconiana rappresentano più accelerazioni che vere e proprie rotture rispetto ai processi avviati. La politica degli anni Ottanta è finita l'altro ieri con il fallimento del "miracolo" e del "decisionismo" berlusconiani, il ritorno al proporzionale.
Ora è il tempo di cominciare un'altra storia. Con un Partito Democratico che non sia soltanto un'ovvia alleanza elettorale, resa obbligatoria dalla consultazione anche frettolosa di un qualsiasi sondaggio. Oltre che dalla lezione delle ultime politiche, dove la lista unitaria ha fatto la differenza fra vittoria e sconfitta, ben oltre la distanza finale dei venticinquemila voti. Il nuovo partito dovrebbe essere un'occasione per cambiare il linguaggio e il modo di far politica, per aggiornarli all'era di Internet e proiettarli verso i prossimi dieci, venti o trent'anni e non soltanto in vista del 2011.
Per far questo non bisogna assemblare le macchine dei partiti ma semmai rottamarle, con dolore, e con i pezzi costruirne una nuova. Si capisce che questo progetto trovi l'opposizione dei peggiori eredi del vecchio sistema dei partiti ma anche dei migliori e giustamente orgogliosi, da De Mita a D'Alema.
Molte obiezioni sono intelligenti e rispettabili. Ma non sembrano considerare l'evidenza che i gloriosi partiti di massa radicati nel territorio non torneranno mai più. Prima o dopo, tocca rassegnarsi. L'accanimento terapeutico per mantenerli in vita, magari cambiando nome e simbolo di tanto in tanto, serve soltanto a perdere qualche milione di voti ogni cinque anni. Non soltanto in Italia ma ovunque. Con la differenza che negli altri paesi la gente smette di andare a votare mentre qui l'insoddisfazione alimenta un lussurregiare di nuovi partitini modellati per intercettare la voglia di cambiamento. Con il risultato di trasformare il Parlamento e gli esecutivi in ammucchiate ingovernabili.
Curzio Maltese
Lunedì, 9 ottobre 2006
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