LA REPUBBLICA -
Una vittoria, a sentire i tassisti. Un pareggio, secondo il ministro Bersani. Di sicuro in entrambe queste affermazioni c´è una parte, non piccola, di recita per la platea. È probabile che i rappresentanti degli autisti di piazza abbiano voluto enfatizzare il senso del compromesso raggiunto anche per chiudere una vertenza che stava ormai scivolando sul terreno dell´ordine pubblico, per giunta nel crescente discredito della larga maggioranza del paese nei loro confronti.
Per parte sua, invece, è possibile che il ministro abbia voluto esprimere un giudizio d´equilibrio per aiutare anche lui la conclusione di una vicenda che di giorno in giorno rischiava di rendere necessari provvedimenti d´imperio. Fatto sta che il disegno originario del decreto – una più libera moltiplicazione delle licenze con implicita spinta a una maggiore disponibilità di mezzi a tariffe meno esose – non sarà stato abbandonato, ma risulta comunque ridimensionato.
Per quella gran parte di opinione pubblica che aveva salutato il decreto Bersani con un convinto «finalmente!» e aveva accolto e appoggiato con soddisfazione il «non faremo marcia indietro» del presidente del Consiglio, questo risultato non è di certo un pareggio, tanto meno una vittoria. E ciò per ragioni molto più di metodo che di merito: nella sostanza, infatti, si può anche riconoscere che l´accordo raggiunto rappresenta comunque un passo avanti rispetto al presente e per il futuro socchiude la porta a un possibile miglioramento nel servizio delle auto pubbliche. Dove i conti non tornano proprio per nulla è sul piano dei modi, delle procedure, dei comportamenti tenuti dalle parti in causa.
Infatti, al netto delle pur ragionevoli rassicurazioni dell´ottimo Bersani, quel che lascia un aspro amaro in bocca è l´invincibile sensazione che nel nostro paese viga ancora la pessima regola secondo cui chi più strilla, protesta, minaccia, alza la voce e talora le mani oltre il limite del lecito, finisce per trascinare la ragione dalla sua parte. Anche quando questa sia in conflitto evidente con l´interesse generale della collettività. È una constatazione forse banale: ma se le agitazioni dei tassisti si fossero tenute secondo le buone regole delle vertenze sindacali, il compromesso raggiunto ora in sede ministeriale non susciterebbe tanto sgradevole impressione.
Naturalmente, nessuno si era illuso né oggi si illude che il disboscamento delle sacche corporative diffuse nel nostro paese sia un´opera agevole. Le resistenze degli interessi costituiti a danno dei cittadini consumatori sono e rimangono forti e arroganti. Ma nel caso specifico dei tassisti le manifestazioni della protesta hanno assunto più volte la duplice caratteristica di sfida all´autorità e di deliberato blocco della libera circolazione altrui. A tutto ciò il governo ha risposto facendo a parole la faccia feroce, ma rinunciando nei fatti a esercitare quei poteri legittimi d´intervento che sarebbero stati necessari per difendere i diritti conculcati di quella stragrande maggioranza di italiani che ha attività diverse dalla conduzione dei taxi. Non è stato un bel vedere.
Tanto più perché c´è il pericolo che i tassisti possano aver fatto da apripista per altre categorie comprese nel decreto sulle liberalizzazioni. Del resto, i farmacisti e gli avvocati sono già sul piede di guerra, mentre anche i notai si stanno agitando seppure nelle forme più proprie della loro riservata professione, puntando probabilmente su un´abile opera di «lobbing» parlamentare. Purtroppo, dopo lo sconto – chiamiamolo così – praticato ai tassisti, non è irragionevole temere che sarà più difficile per il governo difendere l´integrità dei suoi provvedimenti anche nei confronti delle altre professioni. Ci mancherebbe solo questo.
C´è, dunque, da chiedersi: ma è possibile che il presidente Prodi e il ministro Bersani non avessero il polso della situazione, quando hanno predisposto e approvato un decreto giustamente presentato come una svolta storica per il paese? Possibile che non abbiano previsto di dover affrontare, prima nelle piazze e poi in Parlamento, le reazioni furibonde di chi campa da tempo immemore imponendo iniqui dazi al normale svolgimento della vita collettiva? È forte il dubbio che la fretta di imprimere la svolta promessa abbia fatto sottostimare la durezza della battaglia che si stava ingaggiando e forse anche sopravvalutare la propria capacità di tenuta.
Già sul terreno fiscale non è stato un bel segno l´errore compiuto con il nuovo regime degli immobili, che è stato precipitosamente modificato sull´onda di un minicrollo in Borsa del settore. Ora questi incagli sul cammino del pur tanto condivisibile decreto in tema di liberalizzazioni. Mentre sul tutto aleggiano i contrasti nella maggioranza sul nodo Afghanistan. Sembra necessario che il presidente del Consiglio intervenga – e non solo con il cacciavite – per registrare la macchina decisionale del suo gabinetto. E lo faccia al più presto, anche per ragioni politiche generali. Prima, per esempio, che strampalate proposte – come quella di un governo di grossa coalizione – perdano il loro sapore di accattonaggio molesto da parte dell´opposizione e diventino uno spudorato tema di dibattito nell´agenda politica.
Massimo Riva
Mercoledì, 19 luglio 2006
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