L'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha recentemente dichiarato di essersi "profondamente ispirato", per le scelte di politica sociale, a quelle compiute dal governo danese. Il primo ministro francese Dominique de Villepin ha inviato propri funzionari a Copenaghen, per studiare i segreti dello stato sociale che sembra soddisfare contemporaneamente le esigenze di sicurezza economica dei lavoratori e le richiesta di flessibilità degli imprenditori.
Ora il modello danese approda nel dibattito politico italiano, per la scelta dell'Unione di inserirne gli aspetti principali nel programma che verrà presentato in vista delle elezioni politiche di aprile.
Ma cerchiamo di descrivere più dettagliatamente quali sono i pregi e i difetti del Welfare State adottato dal governo di Copenaghen.
La parola chiave per comprenderne la logica ispiratrice è: "flexsecurity", ossia flessibilità economica unita a sicurezza sociale.
In Danimarca i disoccupati rappresentano il 5% della popolazione e meno del 2% dei cittadini rimane senza lavoro per più di due anni. Tuttavia un impiego dura in media quattro anni e ogni danese cambia almeno cinque volte datore di lavoro nel corso della sua vita.
Gli imprenditori hanno la massima libertà di licenziare potendo dare in tal senso un preavviso di soli cinque giorni. Il lavoratore licenziato, dal primo giorno di disoccupazione percepisce un assegno da parte dello Stato pari all'80-90% del suo stipendio per quattro anni.
Come ha sottolineato Urban Ahlin, un esponente dei socialdemocratici danesi, il modello sociale adottato dal governo mira a salvare le persone piuttosto che i posti di lavoro, investendo, anziché sulle aziende che rischiano di finire fuori dal mercato, "sulla formazione dei lavoratori per orientarli verso nuovi settori".
Anche l'ammirato stato sociale danese presenta però delle imperfezioni. Dopo un anno di disoccupazione rifiutare una proposta di lavoro comporta la sospensione del sussidio. Quello che sembra un principio in astratto corretto pone però serie difficoltà ai lavoratori maggiormente qualificati, che potrebbero vedersi costretti ad accettare un lavoro largamente al di sotto delle loro competenze per evitare di restare disoccupati e senza sussidio.
In effetti si è notato che i meccanismi di ricollocamento funzionano con meno efficacia quando si tratta di lavoratori qualificati, molto specializzati o di persone oltre i 50 anni. Problemi ancora maggiori sono stati poi registrati per gli immigrati: la maggior parte di loro è completamente tagliata fuori dagli ammortizzatori sociali della flexsecurity. Per i cittadini stranieri la disoccupazione è quasi tre volte più alta e chi non ha mai avuto un impiego o non ha un titolo di studio danese è escluso dal mercato del lavoro.
Oltre a questo il modello danese appare anche difficilmente esportabile. La popolazione danese, con i suoi 5,5 milioni di abitanti, è pari a quella di Roma, inoltre il governo di Copenaghen può contare su un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, privo dei problemi di bilancio che riguardano ormai tutte le principali democrazie occidentali.
Appare poi difficilmente riproducibile in altri paesi anche l'armonioso rapporto di collaborazione tra imprenditori e sindacati che, secondo Paolo Borioni della Fondazione Gramsci, dà luogo ad una vera e propria "economia negoziata" in cui "la concertazione è antica da oltre un secolo".
Eppure, nonostante i molti apprezzamenti internazionali, il modello danese non sfugge a qualche critica interna.
Il quotidiano progressista "Information" ha recentemente condotto un'inchiesta per denunciare il malfunzionamento delle scelte fatte dal governo in tema di politiche del lavoro.
"Le statistiche sulla disoccupazione non dicono che c'è quasi un milione di persone che vive con il Welfare e non riesce a tornare sul mercato" dichiara il direttore del giornale Palle Weiss. "Il lavoro è vissuto con uno stress maggiore di prima, c'è un diffuso senso di vulnerabilità. Non vorrei" aggiunge Weiss "che i politici scambiassero la realtà per un miraggio".
Paolo Romani
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