Uno dei temi al centro del dibattito politico europeo è quello concernente l'opportunità o meno di accogliere la Turchia nell'Unione Europea.
Sono 40 anni che Turchia ed Europa hanno iniziato a stabilire contatti e relazioni ufficiali.
Già nel 1964 infatti, la Cee ed il governo turco firmarono una ‘Association Agreement', che prevedeva la realizzazione di un'unione commerciale fra Europa e Turchia da attuarsi nell'arco di 13 anni.
Ma le difficoltà economiche interne alla Turchia durante gli anni '70 impedirono l'applicazione dell' accordo, bloccato in seguito dalla salita al potere dei militari.
Nel 1986 i colloqui turco-europei vennero ristabiliti e l'anno successivo Ankara presentò la richiesta formale di accesso alla Comunità europea.
Solo alla fine degli anni novanta, però, la Turchia venne riconosciuta in modo ufficiale candidato all'ingresso nella Comunità europea e la svolta si ebbe nel 2002 quando R. Tayyip Erdogan, leader del partito islamico moderato Giustizia e Sviluppo (AKP), divenne Primo Ministro, vincendo le elezioni con un programma di riforme, che prevedeva l'entrata della Turchia in Europa entro il 2012.
I negoziati si prevedono molto lunghi (dieci-quindici anni probabilmente) ma dovrebbero concludersi con esito positivo per la Penisola Anatolica, nonostante l'opinione pubblica sia molto divisa al riguardo.
Quello che oggi ci si domanda è quanto questo Paese possa essere un paese europeo, per ragioni etnografiche, storiche, politiche e, non ultimo, religiose.
La Turchia conta 70 milioni di abitanti, al 99% musulmani. I cristiani sono lo 0,6% della popolazione. I cattolici sono circa 30mila. Un problema, quello identitario-religioso, che pone non pochi interrogativi: la Turchia è un paese dalla forte connotazione islamica, un paese dalla cultura, dalla lingua e dalle abitudini molto diverse da quelle europee e la paura è di creare il presupposto per un' "invasione islamica" o "turcomanna" in Europa.
Ma, a ben vedere, i musulmani in Europa già ci sono, e non mi riferisco solo agli immigrati.
Tra l'altro il pericolo è scongiurato dal fatto che quella anatolica non è una popolazione nomade e che il Paese sta velocemente avviando una campagna di modernizzazione e democratizzazione che lascia ben sperare i propri cittadini. Anzi, probabilmente una Turchia più ricca e integrata nel sistema economico europeo diventerebbe la mèta per gli immigrati arabi che, com'è naturale, preferirebbero trasferirsi in un paese musulmano piuttosto che in uno cristiano.
"Islamizzare l'Europa o europeizzare la Turchia?", dunque. Questo è il quesito che, in un recente dibattito, il Prof. Pedrag Matvejevic ha posto alla sua platea. Ebbene, molti ritengono che entrambe le soluzioni siano strategicamente importanti, non solo a livello di crescita culturale: la Turchia porterebbe l'Unione a confinare direttamente con una zona vitale quale quella del Vicino Oriente, e, come conseguenza poco gradita al di là dell'oceano, l'Europa entrerebbe di diritto nell'irrisolta questione israelo-palestinese.
Dal canto suo, la Turchia si vedrebbe riconosciuti i suoi sforzi di modernizzazione e trarrebbe beneficio dai vantaggi economico-politici dell'ingresso nell'Unione. Certo, nel breve periodo i vantaggi sarebbero sopratutto turchi, ma nel medio-lungo periodo i benefici si estenderebbero all'Europa, che ne sfrutterebbe il dinamismo economico in forte crescita, soprattutto nei settori dell'agricoltura e del terziario. Quella turca risulta infatti essere complementare e assolutamente non in concorrenza con quella europea. Si può dar credito, allora, a quanto affermato da uno degli oratori a Bruxelles, Tugrul Kutadgobilik, Presidente della Fondazione Metalmeccanici Turca, il quale afferma che «la situazione e' win-win: vinciamo noi vincete voi. Vince la Turchia, vince l'Europa.»
Non pare dunque insensato, dietro la "questione religiosa", cercare più che altro motivazioni di carattere geopolitico. Molti sono infatti coloro che si oppongono all'ingresso della Turchia nell'UE perché essa potrebbe costituire una sorta di "cavallo di Troia" di Washington. Tale ipotesi (sostenuta in Italia dall'estrema destra e dall'estrema sinistra, cioè le parti politiche che più si oppongono alle influenze americane sul nostro Paese) trova il suo fondamento nella constatazione che la Turchia è un alleato degli USA ed ha stabilito, negli ultimi anni, un rapporto sempre più stretto con Israele. Pertanto, secondo tale ipotesi, gli Stati Uniti vedrebbero con favore l'entrata della Turchia nell'Unione, per accrescere la propria influenza su un'Europa sempre più indipendente.
D'altro canto bisogna sottolineare quanto questa alleanza turco-americana sia oggi sempre più in bilico, dal momento che il potere è passato nelle mani del partito musulmano moderato di Erdogan, i cui militanti mostrano una chiara insofferenza verso la supervisione americana e verso il tentativo di orientare la politica estera turca in funzione anti-europea.
Al momento la linea di condotta della Turchia sembrerebbe essere quella di ristabilire un dialogo con l'ex Unione Sovietica, alleggerire il peso dell'alleanza con Stati Uniti ed Israele, entrare di diritto nell'Unione Europea.
Ciò che sarà interessante verificare, in termini politico-strategici, è il ruolo che la Turchia assumerà: se deciderà di schierarsi con Londra, sotto l'ala nordamericana, o con Parigi, Berlino e Madrid, contribuendo così alla creazione di una sempre più autonoma Unione Europea.
E' tuttavia evidente che quello dell'ingresso della Turchia in Europa non sarà un sì incondizionato: il governo turco dovrà impegnarsi a rispettare le condizioni richieste, i cosiddetti «criteria di Copenaghen», cioè dovrà garantire la presenza di istituzioni stabili e democratiche, il primato del diritto, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. A tale proposito, molti progressi sono stati già fatti, soprattutto riguardo alla questione curda e al rispetto dei diritti delle donne. E' stata abolita la pena di morte ed i tribunali speciali per la sicurezza dello stato; è stato inoltre rinnovato il Consiglio di sicurezza nazionale, (l'organo costituzionale in cui siedono i vertici militari e politici del paese), al fine di ridimensionare il peso politico dei militari.
Restano sicuramente molte lacune da colmare per adeguarsi alle richieste dell'Ue, ma ciò che con certezza si può affermare è che il cambiamento è reale e tangibile.
Giulia Calò
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