IL MESSAGGERO -
Non chiamate Paul Rusesabagina "lo Schindler africano". L'interessato non apprezza, anche se nel 1994 salvò (lui dice: aiutò) 1.268 persone nascondendole nell'hotel Mille Collines di Kigali per sottrarle ai machete degli estremisti Hutu che massacravano i Tutsi, l'etnia rivale in Ruanda. E poi il paragone non regge comunque. Schindler's list era un successo annunciato, l'opera a lungo meditata (e sontuosamente finanziata) del regista più famoso del mondo. Hotel Rwanda è una coproduzione anglo-italo-sudafricana che nessuno voleva fare. Un film girato quasi sul tamburo dal carneade irlandese Terry George, che senza Majors alle spalle né divi in cartellone ha conquistato un posto fuori concorso a Berlino e tre candidature all'Oscar. Non un capolavoro forse, ma un film utile, documentato, coraggioso, che rievoca la tragedia ruandese senza nascondere le colpe dell'Onu e dell'Occidente. Un lavoro scomodo, tanto che per produrlo a Hollywood volevano star come Denzel Washington o Will Smith nel ruolo di Rusesabagina. Ma star significa denaro, denaro significa vincoli, e Terry George vuole la massima libertà. Così eccoci al FilmFest, con il valoroso Rusesabagina seduto accanto all'attore che veste i suoi panni nel film, l'eccellente Don Cheadle (potenziale Oscar). Che dopo aver raccolto tonnellate di informazioni si è miracolosamente "trasformato" nel suo modello («il più bel complimento racconta l'attore me lo ha fatto un collega africano che sul set mi parlava nella sua lingua, dimenticando che sono americano»). Naturalmente Hotel Rwanda mira al pubblico più ampio possibile, dunque non indulge allo spettacolo né all'orrore. Diciamo che anziché su ciò che hanno fatto i neri, insiste su ciò che non hanno fatto i bianchi. E se quei giorni, ammette tranquillamente Rusesabagina, «furono molto più spaventosi di quanto appaia sullo schermo», il film ricostruisce con forza l'intreccio di complicità, indifferenza, ottusità che portò al genocidio. «La rabbia e l'amarezza più grandi vengono dal tradimento della comunità internazionale», dice Rusesabagina. «C'erano 2500 soldati Onu, la gente si era asserragliata nelle chiese e nelle scuole. Quando se ne andarono fu come dire ai massacratori fatevi sotto, finite il vostro lavoro». In assenza o quasi di orrore a tutto schermo (la mattanza è più suggerita che mostrata), nel film questo sentimento è molto forte. Perché il direttore d'hotel Rusesabagina apparteneva all'élite. Scuole private, inglese e francese perfetti, modi cosmopoliti. «Mi ero illuso di essere dei loro», dice nel film. E invece... E invece, lui e Don Cheadle tornano da un viaggio fra i profughi in Sudan. «Perché l'orrore può ripetersi, dunque è importante non abbandonare le vittime, testimoniare, resistere», conclude Rusesabagina. «E seguire la riconciliazione in Ruanda. Oggi i vincitori sono pronti al perdono ma vogliono che i colpevoli si inginocchino. Il vizio è che qualcuno pensi di imporre la democrazia dall'alto, come in Iraq. Sarebbe il guaio peggiore».
Fabio Ferzetti
Sabato, 12 febbraio 2005
|