IL TEMPO -
«Non sono una fotografa ad alta tensione». La luce è tagliente, crea il necessario contrasto ma non inquieta. Sono i suoi versi ridotta in scala, formato diapositiva: c'è dentro il distacco materiale e il legame con le piccole incisioni della sua anima, l'esercizio meditativo e la tecnica rituale, la stessa con cui sciorina in concerto le sue lunghe spoken-song, alernando lucidissime considerazioni a visionario eccitamento. Patti Smith espone le sue fotografie a Palazzo Fontana di Trevi nell'ambito del «IV Festival Internazionale Fotografia 2005: Oriented». Con le sue lenti riposanti montate su un paio di occhiali alla Allen Ginsberg, t-shirt e spilletta con il simbolo della pace, la sacerdotessa del punk concede una visita guidata alle sue opere. Uno dei primo oggetti ritratti fu una "echeggiante ciotola tibetana". La macchinetta sempre la stessa, dagli anni '70: una Land 250, una di quelle vecchie Polaroid a soffietto, oggi si direbbe vintage. Deve a Robert Mapplethorpe la passione per la fotografia? «Grazie a Robert io ho recuperato una sicurezza e una enorme fiducia in me stessa come essere umano e come artista. Quando guardo alle foto pensando a lui, so esattamente qual è quella che scaturisce dalla mia estetica personale e quale sarebbe piaciuta a lui. Una delle foto ritrae una semplice croce di marmo che mi ha lasciato quando è morto». Esiste una relazione tra le sue fotografie e la sua musica? «Non so se esiste un rapporto tra queste due dimensioni di Patti Smith. Viaggiando, spostandomi continuamente per il mio lavoro di cantante sono in grado di vedere cose e luoghi che normalmente non vedrei e allora qui entra la Smith fotografa. È così che sono nate le foto che ho scattato del letto di Virginia Woolf o del giardino di Gabriele D'Annunzio. Metto nelle cose la stessa cura, nel fare una foto, nel preparare, mentre disegno o canto una canzone. Dentro ci metto tutto quello che ho dare». Come nel rock, anche le sue fotografie sembrano inseguire l'effetto del chiaroscuro. È d'accordo? «Lo considero un complimento. Luce, buio, ombre, oscurità: è fondamentalmente tutto quello che io capisco. Ma non sono di certo una fotoreporter, come il grande Robert Frank che aveva la capacità di andare in giro per il mondo ed era pronto con il suo scatto. Le mie foto sono di natura più meditativa, molte di esse sono scattate in studio. La Serie del Cristo, ad esempio, l'ho realizzata seduta, aspettando che la luce diventasse proprio quella che io desideravo. Non ho un enorme competenza o capacità tecnica né l'occhio foto-giornalistico per vedere certe cose: la mia comprensione della fotografia si riassume nel mio rapporto con la luce. L'altro giorno ero a Napoli. Di fronte al Vesuvio mi sono sentita come Monet. Ho scattato la stessa foto 20 volte, ma nel frattempo la luce cambiava: dapprima era tutto brumoso, c'era una sorta di nebbia, e poi alla fine la luce è diventata cruda persino forte». Che effeto le fa essere a Roma mentre si decide del nuovo Papa? «Mi sembra quasi un segno del destino. Io avevo un grande amore per Giovanni Paolo I, testimoniato dal mio tour del '78 e dai miei dischi. La sua morte mi rattristò al punto da indurmi, sebbene io non sia cattolica, a seguire le vicende del nuovo Papa. Anche se non sempre sono stata d'accordo con tutte le sue prese di posizione dottrinale, se guardo il fenomeno nell'insieme, credo che Giovanni Paolo II sia stato un grande uomo, un simbolo di perdono, pace e fratellanza. Nutrivo per lui amore e rispetto. Ho avuto un grande privilegio nel trovarmi qui in un momento così importante della storia. Ho sentito il suo spirito lasciare questa terra. A noi l'opportunità di pulire il nostro, fare i conti con la propria vita e ricominciare».
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