Durante il Live8 una specie di radiazione ha attraversato il mondo, e il mondo s'è trovato ad ascoltarne l'eco, riconoscendone subito la sonorità e il ritmo. Ragazzi, siamo ancora dentro l'Età del Rock, e forse ci saremo per sempre, qualsiasi cosa significhi la parola rock: perché con questa etichetta sommaria s'intende il linguaggio d'una generazione eterna, che ha cominciato a sentire quella musica ai tempi in cui i Beatles fecero la loro prima rivoluzione con Please Please Me, e i Rolling Stones misero a repentaglio la buona creanza sulla scia di Satisfaction.
Siamo sempre dentro lo stesso quarantennio, anzi di più, ci stiamo inoltrando verso il mezzo secolo. La musica dei giovani (perché i "giovani" come categoria sociale furono inventati con gli anni Sessanta) è diventata un patrimonio collettivo. Un deposito di suoni e di parole che vengono riconosciuti da un pubblico di massa, ormai indifferente alle scansioni generazionali.
Conta poco, infatti, che i sulfurei freak di allora siano diventati dei babbioni che generano ironie corrive sui loro problemi prostatici. È vero che già ai tempi del primo Live Aid Paul McCartney veniva definito ironicamente dai colleghi più giovani "un anziano statista del rock". D'altra parte, non è che il suo compagno di duetto, Bono degli U2, sia un ragazzo. E anche i superstiti Pink Floyd, tornati insieme per l'occasione, sembrano reduci da una vita piuttosto difficile, che li ha segnati fisicamente: ma ciò che conta è che il pubblico, un pubblico che in genere ha quaranta se non addirittura cinquant'anni meno di loro, riconosce immediatamente la loro voce e la loro musica, si immedesima, canta con loro.
Il che vorrà dire molte cose, ma ne dice una in particolare: e cioè che nel corso di mezzo secolo (questo è l'arco temporale se si fa risalire il rock alla prima esecuzione di Rock Around the Clock), si è creata quella realtà misteriosa che è un canone. Non solo: quel canone non sembra subire le ingiurie del tempo. La Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles risulta singolarmente contemporanea dell'opera rock The Wall dei Pink Floyd, e non distante tecnicamente e "culturalmente" da un pezzo qualsiasi degli U2 o dallo strepitoso reggae bianco di Sting, Message in a Bottle.
Ciò che per la generazione dei baby boomer era una rottura di fase, uno strappo scandaloso ed euforico rispetto ai crooner come Frank Sinatra, in America, o ai tenorini di grazia come Claudio Villa, in Italia, oggi è vissuto come una perfetta regolarità, un fenomeno ambientale permanente. Se Bob Dylan cantasse Blowin'in the Wind come lo cantava allora, senza deformarlo volutamente come ha fatto con perfidia negli ultimi trent'anni, anche quella canzone pacifista, umanitaria e "poetica" farebbe parte del clima sonoro di questo nostro tempo senza scansioni, e quel Dylan verrebbe identificato immediatamente da tutti come un'icona novecentesca e postnovecentesca, perché tutti sanno e sentono che "the answer, my friend", con quel che segue.
Solo che per i cinquanta-sessantenni (e magari oltre) odierni, la poetica di Dylan, e di tutti coloro che cantavano per un mondo migliore, è legata in gran parte al sound politico dei primi Sessanta, al terrore atomico del dottor Stranamore, alle promesse di un'era "peace and love", o semplicemente al piacere della contestazione contro il mondo dei "vecchi". Mentre per il grande orecchio transgenerazionale di oggi la musica è musica e basta, e le parole vanno bene se suonano bene. L'esplosione delle vendite post "Live 8" della raccolta dei Pink Floyd Echoes è sintomatica, perché nasce dalla voglia di risentire l'eclettismo di quelle canzoni in cui su una struttura blues si articolano temi rock e talvolta funky, vale a dire una sintesi completa dell'Epoca Rock.
Un canone è una costellazione di classici. Ma è soprattutto un contesto in cui tutti riconoscono tutto: e questo perché quei suoni sono diventate parte dell'esperienza quotidiana, li abbiamo ascoltati per radio in auto, sono arrivati dagli altoparlanti di un bar, hanno fatto da sfondo al lavoro, dopo tre o quattro battute li riconosce, come diceva quarant'anni fa Alberto Arbasino a proposito di Mina, "il mio elettrauto e un professore universitario". E poi c'è sempre la sorpresa di risentire qualche capolavoro popolare che all'ultimo ascolto si rivela infinitamente più suggestivo della produzione corrente: già, perché nel corso degli ultimi quattro o cinque decenni la sensibilità diffusa, le abitudini, la memoria, la riproducibilità tecnica, il gioco delle emozioni collettive e delle identificazioni individuali hanno scremato dal dirty job delle multinazionali discografiche quel catalogo di perle il cui suono brilla per l'eternità, anche se riprodotto in modalità shuffle, cioè casuale, da un iPod.
Dev'essere per questo che talvolta i ragazzini, dopo avere ascoltato i Coldplay, i Gorillaz, i Blue, o una boy band qualsiasi prodotta dalla megamacchina del marketing mondiale, possono dedicare alcuni pomeriggi all'ascolto dell'opera omnia dei Beatles. Sarà perché quelle canzoni così melodiche, o quei rocchettini così acidi, che loro hanno intercettato in parte grazie ai loro genitori e in parte per loro vie originali e traverse, risultano di una modernità sorprendente, nella loro apparente semplicità. Suonano bene, per l'appunto. Sarà anche perché non si capisce per quale motivo uno dovrebbe ascoltare gli Oasis, ovvero una serie di citazioni beatlesiane, visto che sono pur sempre a disposizione gli originali Lennon & McCartney. Ma la ragione finale è che gli attuali Coldplay, e i loro maestri Radiohead, sono perfettamente coetanei con gli Who e le band della felice Inghilterra dei tempi di Mary Quant.
Vale a dire che in questo presente infinito, che si sa all'incirca quando ha avuto il suo Big Bang, ma si espande senza fine come una galassia, può essere che gli dei del rock, nelle loro fattezze esteriori, siano infinitamente diversi dai loro se stessi giovani. Il volto di Mick Jagger, per dire, è una caricatura dello spirito maligno che cantava Sympathy for the Devil, e soprattutto urlava "time is on my side", il tempo è dalla mia parte. Il fenomenale performer Sting è un signore di mezza età che dev'essersi dimenticato di quando sosteneva provocatoriamente, dall'alto della sua classe, che il rock "è una nullità reazionaria". Bentornato fra noi, viene da dirgli.
Fra noi che condividiamo le stesse canzoni, cioè la stessa cultura antropologica popolare, che sappiamo più o meno riconoscere un rap dei Linkin Park ma che non neghiamo un brivido quando ascoltiamo di nuovo Wish You Were Here: noi, insomma, che siamo coetanei di tutti.
Edmondo Berselli
La Repubblica
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