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Cinema: La bestia nel cuore

Quando Gustave Flaubert pronunciò la celebre frase: Madaine Bovary c'est moi, forse disse ancora troppo poco. Certo, è una sintesi perfetta, che ci spiega in un attimo quanto un artista si precipita in ogni opera d'arte; ma in realtà Flaubert avrebbe potuto affermare con la stessa sfrontatezza: Chaque virgule c'est moi: perché la verità è che ogni dettaglio di un libro, ogni sua minima parte, rispecchia interamente la coscienza e la vita di chi li ha scritti. É errato pensare che lo scrittore si riversi solo nel personaggio principale, perché ogni parola, pensata con cura e con fatica, cavata dall'anima, collabora a rendere visibile il profilo invisibile dell'artista.
Ripensavo a questa mia convinzione mentre seguivo questo film di Cristina Comencini, accolto con molti applausi a Venezia e ora premiato anche dal pubblico delle sale. Perché non mi ha convinto, sono un bastian contrario o ho qualche buon motivo per la mia insoddisfazione? Il fatto è che un'opera dovrebbe raccogliere in ogni suo momento la stessa luce, la medesima necessità, l'unica intenzione. C'è una melodia che s'impone e si ricorda, ma anche l'ottavino in terza fila, l'oboe quasi sommerso, suonano intonati su quell'accordo sostengono le note in primo piano. Ecco, non mi pare che questo avvenga in La bestia nel cuore. La storia principale è nota: una ragazza intravede in sogno l'oscura radice della sua infelicità, le violenze sessuali subite nell'infanzia. L'orco fu il padre, un professore tranquillo, studioso, apparentemente sereno. Giovanna Mezzogiorno rende molto bene lo sbigottimento di questa giovane donna, il dolore dì una scoperta così mostruosa. Purtroppo il film se la dimentica troppo spesso: noi le vorremmo stare accanto, sentire quello che sente, e invece ci ritroviamo a pedinare una serie di personaggi laterali che potrebbero stare in qualsiasi altra storia, in ogni sceneggiato.
C'è una cieca lesbica e sensibilissima. una signora abbandonata dal marito per una commessa belloccia, un fidanzato attore di teatro d'avanguardia che si piega alla televisione, un regista cinico che di colpo riscopre l'antica passione per l'arte: e ogni volta che il filo della vicenda passa nelle loro mani, si perde la tensione primaria. Intendiamoci, ognuna di queste figure è resa bene, gli attori se la cavano egregiamente, ma procedono per conto loro. ognuno perso dietro i suoi problemi d'amore o di lavoro, e il cuore nero del film si perde tra rivoli che non puntano allo stesso tumultuoso fiume, ma se ne vanno qua e là per altri orti. Il tema della violenza sui bambini era già stato raccontato in altri film: penso soprattutto a Festen, una delle prime opere targate Dogma. Ma lì ogni parola e ogni volto convergevano ferocemente su quel punto atroce. Ogni inquadratura contribuiva a dare sostanza alla tragedia, e il film è rimasto stampato a fuoco nella nostra memoria.
Nel film della Cornencin,i, invece, prevale una struttura da sceneggiato o da soap, dove le storie scorrono parallelamente e ogni tanto magari si sfiorano, senza che nessuna in fondo prevalga sulle altre. E così rimaniamo delusi, perché avremmo voluto che la ragazza dai sogni spaventosi sognasse di più, penetrasse di più nel suo passato, scoprisse meglio l'orrore di una famiglia quasi perbene. Bisognava trovare l'accordo tra le partì, piazzare con precisione i tasselli del mosaico, che invece ruzzano nella scatola, fanno rumore e non creano nessuna immagine.

Diario
Marco Lodoli

 
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