«L'indiano» è, negli occhi di Paolo Conte, Adriano Celentano: un signore, cioè, che parla come uno di quegli indiani che la mitologia cinematografica ci ha tramandato, e prorompe in metafore pittoresche come «Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai», celebre invenzione che diede il titolo all'autobiografia del Molleggiato. 37 anni dopo «Azzurro» - una delle canzoni più celebri e cantate dell'intero repertorio popolare italiano, il cui testo mise per una volta d'accordo il colto e l'inclita nel fatidico 1968 - la coppia Paolo Conte/Celentano si riforma appunto con «L'indiano»: come in un gioco di specchi, Conte ha scritto parole e musica, e citando il famoso cavallo bianco espone la propria idea di Celentano («Lo so che parlo come fa un indiano/Affascinato dal mistero fragile/E solenne, ma è così che parlo io...»); e Adriano si canta, trasformando in autoritratto il testo del grande Astigiano: il quale suona pure il kazoo sia nel singolo in uscita oggi, sia nella riedizione del cd «C'è sempre un motivo», primo album italiano ad uscire nel formato dual disc (cd+dvd in un solo disco).
Trentasette anni hanno cambiato certo più Conte che non Celentano, rimasto un fanciullone sognatore. Il formidabile impianto pop di «Azzurro» e di tutte le canzoni che l'Avvocato scrisse in quel tempo per altri («Insieme a te non ci sto più» per la Caselli o «Messico e Nuvole» per Jannacci) ha lasciato nel tempo spazio ad uno stile più sofisticato e colto, perso nei territori e negli stilemi del jazz e dello swing, coltivato e limato con crescente raffinatezza.
Vicino alle atmosfere che hanno segnato l'arte di Conte ai tempi di «Aquaplano», «L'indiano» - la cui paternità è immediatamente riconoscibile pur nell'arrangiamento costruito dallo stesso Celentano con Celso Valli - non è dunque un «Azzurro 2005». Non ne ha il baldanzoso impatto, né l'ottimismo prorompente che fece in fondo la fortuna del magnifico ritornello di quel brano. La malinconia sottile, il rimpianto di una giovinezza che apriva però le porte ad una maturità piena di progetti da realizzare, lasciano inevitabilmente il posto a suoni e colori crepuscolari, struggenti nella narrazione di un mondo che sollecita solo paure, dove il sogno rimane l'ultimo rifugio anche per un fanciullo incallito (il Molleggiato nazionale chiude infatti cantando: «Ehi, fatemi sognare»).
Celentano e Conte si erano incontrati dopo decenni quando il primo stava preparando «C'è sempre un motivo». L'Avvocato era salito a Galbiate per una cena, dove l'amicizia si era rinsaldata; per il disco non si fece nulla, ma poi «L'indiano» è arrivato, come una preziosità destinata ad arricchire «Rockpolitik», il programma di Adriano in onda su Raiuno dal 20 ottobre: non ne sarà la sigla perché, ha spiegato Claudia Mori ieri, la trasmissione non ha sigla. In compenso, impazza il toto-ospiti. Sicuri Ligabue alla prima puntata e Benigni alla seconda (entrambi in promozione); è saltata l'ipotesi Grillo per problemi legali del sociocomico ligure con la Rai, ma si fanno i nomi più stravaganti, da Prodi e Berlusconi fino al subcomandante Marcos e Daniele Luttazzi.
Marinella Venegoni
La Stampa
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