Scarlett Johansson in una scena di Matchpoint - Un campo da tennis in terra rossa. La pallina gialla vola da una parte all'altra, entrando e uscendo dall'inquadratura. La voce fuori campo del protagonista riflette sull'incidenza del caso nella vita degli esseri umani: «Succede, nel corso di un match, che la pallina urti il bordo superiore della rete e s'impenni per pochi decimi di secondo. Con un po' di fortuna, cadrà sul lato del campo che vi da la vittoria. Ma può cadere su quello opposto e allora avrete perduto». È il prologo di Match Point, il migliore film di Woody Allen senza Woody Allen che ci fa capire per l'ennesima volta come solo grazie a titoli di questo calibro il cinema possa ridestare lo spossato interesse del pubblico grande. A suo pieno agio nella trasferta britannica, il regista rinuncia a mettersi in scena come adorato gaffeur, ma in compenso costruisce -a partire dalla sceneggiatura a orologeria- un thrilling d'amore e odio, di «lotta di classe» esistenziale che da una parte richiama il nichilismo di Dostoevskij e il naturalismo di Dreiser («Una tragedia americana»), dall'altra gli azzardi in chiaroscuro di Alfred Hitchcock. Match Point si giova, innanzitutto, di stupende recitazioni, supportate da dialoghi scritti in stato di grazia che sarebbe opportuno poter gustare nello squisito inglese fatalmente appiattito dal nostro doppiaggio; poi centra col necessario understatement la combinazione di tutti i dettagli psicologici, tutte le sfumature ambientali, tutte le serrature narrative mantenendo costanti ritmo e tensione e intarsiando i concetti di delitto e castigo col pessimismo innato del supremo umorista. Nella sua inesorabile progressione, infatti, resta incollato ai corpi, ai gesti, alle espressioni, ai complessi di colpa occulti o manifesti dei personaggi, abrogando ogni (pre)giudizio morale e limitandosi a utilizzare come sarcastico evidenziatore la colonna sonora gremita di hit operistici, da «La traviata» a «L'elisir d'amore», da «Rigoletto» a «Guglielmo Tell». Dettagliare la trama sarebbe, in questo caso, un'imperdonabile scorrettezza: basta dire che assistiamo all'irresistibile ascesa dell'aitante ex promessa del tennis Chris (Jonathan Rhys Meyers) nell'alta società londinese, messa in grave pericolo al momento dell'apoteosi dalla passione per l'irrequieta e torbida aspirante attrice yankee Nola (Scarlett Johansson, sempre aggressiva e sexy, ma mai inespugnabile nel maniero country come nello squallido basement). A un passo dal paradiso i foschi capricci del destino s'intrecciano alle ciniche ambiguità dell'istinto e, sullo scenario di un comfort pressoché tattile (la Londra chic, competitiva e snob di Mayfair e di Belgravia, ma anche quella aggiornata, mutevole e fuori standard della Tate Modern e della Royal Opera House ne risultano gratificate come l'indimenticabile New York alleniana), s'aprono profonde crepe, spaventosi crepacci che fanno oscillare il protagonista come la pallina del prologo sugli opposti versanti del colpo di scena finale.
Valerio Caprara
Il Mattino
14 gennaio 2006
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