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Pier Paolo Pasolini: l'intellettuale come oppositore - A trent'anni dalla morte del poeta, 2 novembre 1975 - 2 novembre 2005 -
Il verbo provocare (v.tr. – Eccitare o irritare spingendo a una reazione per lo più violenta, dal latino provocare, comp. di pro- e vocare, "chiamare fuori") sembra non avere più senso in una società che ha catalogato tutto, incasellato tutto, digerito tutto: è persa, diceva Ennio Flaiano, nel Grande Sbadiglio; tutto riduce all'ordine del già visto, se non del gioco, e nella quale ogni infrazione al codice genera inevitabilmente il rimpianto del codice e l'inevitabile restaurazione. E in cui gli anticorpi servono a omeostatizzare il Sistema e farlo prosperare ancor più.

E' utile in tale contesto sociale rispolverare una figura come quella di Pasolini, la cui fine era stata vista da molti come una sconfitta umana ed esistenziale, espressa in termini espliciti dalla cupa disperazione che sembrava esalare delle sue ultime opere, sempre più violente e aggressive verso un mondo ormai irriducibile ai suoi strumenti intellettuali? Molto si è parlato, soprattutto nell'ultima parte della sua vita, del peso dei suoi umori personali nelle sue invettive contro il mondo moderno, soprattutto contro una orribile condizione giovanile che una Società Permissiva iconicamente rappresentava nelle pubblicità attraverso "giovani in sella a motorini sottobraccio a esornative ragazze", suadente e ipocrita Modello di libertà sessuale ma, per lui, autore della Trilogia della Vita, non quello tanto auspicato. Queste invettive sembravano dettate da una condizione tutta personale, per lui omosessuale e escluso da un Modello estraneo e forse oscuramente irraggiungibile. (Ma, si può obiettare, per chi lo è?)
Eppure Pasolini stesso per molti altri è ancora oggi un Modello, se non un Mito. E la sua parabola culturale investe in pieno la funzione, il ruolo, il compito dell'intellettuale nella società moderna. Non c'è stato punto dove Pasolini non si sia speso con il suo piglio polemico. E si è speso in pieno, senza sconti, gettando propriamente "il suo corpo nella lotta". Finchè il suo corpo non è rimasto sul terreno.
A questo proposito ci viene in aiuto una frase di Jean-Paul Sartre: l'intellettuale è colui che si occupa di ciò che non lo riguarda. Non è uno specialista, che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista e come tutti gli eterni apprendisti deraglia da una disciplina all'altra, rischia molto spesso di prendere delle cantonate, ma altrettanto spesso rischia di vedere cose che sfuggono agli specialisti.

E Pasolini qui rientra in pieno, con il suo pensiero contraddittorio, ossimorico, eppure in cui si intravede il filo di un discorso lucido, adamantino, morale nella sua estrema libertà. Si è occupato di tutto, anche di ciò che non gli competeva; Adriano Sofri scrisse che è stato un grande dilettante, ma sempre con l'aria di chi sapeva accorgersi delle nudità del re. Sapeva far coesistere in sé De Sade, Rimbaud e S.Francesco, Freud e Cristo, Marx e Sofocle, e molti altri esponenti di quelli che possiamo definire contro-poteri, alternativi alla cultura liberista borghese. Rifuggendo i facili manicheismi ma anche le mezze misure, e piazzandosi in una posizione assolutamente "estranea" a qualsiasi compagine persino anarchica, ma ancora oggi così ricca di potere conoscitivo. E' questo che, dopo molti anni, ancora lo rende vivo e fa si che nella carica dinamitarda del suo pensiero "oppositivo" non si siano bagnate le polveri.
Chi pensa che Pasolini sia un nostalgico di una fantomatica età dell'oro non ha capito quasi nulla. Lui ha dialogato con la più alta cultura borghese e con i più arditi sperimentalismi della tecnica e dell'avanguardia. Pasolini, pur nella costante nostalgia del passato che impregnava le sue pagine e le inquadrature dei suoi film, non ha mai fatto della rinuncia una bandiera: fra i primi ha capito che l'intellettuale aveva il compito di saldare il campo della cultura con il campo dei media di massa, e doveva sforzarsi di apprendere un linguaggio che va oltre il testo scritto, si confronta con i mostri dell'irrazionale. E si è speso fino in fondo in questa nuova tecnica.
Pasolini ha saputo fornire sui linguaggi audiovisivi spunti fondamentali, che erano poi spunti per guardare alla realtà e al mondo. Ha trasformato in materia viva, vibrante, quelli che sembravano vecchi sermoni da Scuola di Francoforte. La televisione, diceva, come medium di massa è una colata lavica che unifica le varie culture in una koinè tecnologica invivibile e immorale nella sua medietà. Causa la scomparsa dei dialetti (e di conseguenza muta antropologicamente un popolo) e favorisce l'Avvento (così lo chiamava) di una Lingua Tecnologica e inumana. E' lo strumento dell'omologazione delle varie culture particolaristiche dell'Italia del dopoguerra in un unico grande bacino borghese e consumistico. Uno scenario da dopo-bomba.
Altri teorici in tempi più recenti smentirono tutto ciò rimarcando il potere della televisione come cassa di risonanza delle diversità (il filosofo Gianni Vattimo). Altri come il sociologo Alberto Abruzzese, misero in luce i nuovi dialetti, e di conseguenza le nuove realtà particolari che la televisione creava dal nulla. Al posto delle lucciole del passato, le lucciole di cui Pasolini lamentava la scomparsa in uno dei suoi fulminanti e celebri articoli corsari, altre, più attrezzate, più selezionate per la modernità nascono e ne prendono il posto.
In tempi ancora più recenti sembrano essere messi in crisi molti assunti fondamentali delle teorie mass-mediologiche di Pasolini: nasce Internet, la Tv si avvia a diventare digitale, i mass-media, da strumenti di controllo e di soggiogamento delle masse, sembrano poter incarnare l'ideale modernista di comunicazione globale fra liberi cittadini.

Forse adesso, dopo mille contrasti, i più concedono qualcosa a Pasolini, pur nell'estremismo di certe sue posizioni, per quanto riguarda la società e i mezzi di comunicazione di allora. Forse aveva ragione lui, prima le cose andavano così e così, ma ora...
La metafora che per molti meglio rappresenta la condizione organizzativa e lavorativa della comunità e dell'impresa post-industriale è data dall'immagine del circo. Il motivo di una tale scelta risiede nella precipua forma organizzativa circense: la mobilità (flessibilità), nella versione interna (disponibilità a frequenti cambiamenti di ruolo) ed in quella relativa alla grande propensione al movimento geografico. In realtà, sono molti gli osservatori sociali che concordano nell'attribuire all'uomo e alla donna post-moderni una peculiare e rappresentativa condizione nomade. La Comunicazione ha assicurato la possibilità di una trasformazione del vissuto quotidiano in perenne potenzialità di movimento. L'essere umano nomade, questa la vera metafora dell'individuo post-moderno. L'individuo privo di consolidate certezze e rassicuranti punti di riferimento. La nuova libertà conquistata dall'occidente, una libertà angosciante e piena di solitudine. La solitudine e l'angoscia sono sempre il prezzo della libertà. Non la libertà del tiranno, ma la libertà del viandante.
In questa realtà cangiante e mutevole cosa resta di Pasolini e del suo elaborato armamentario ideologico? Bisogna dimenticare Pasolini? La realtà è che Pasolini ci resta malgrado ciò, per qualche misteriosa ragione, attaccato addosso. E grazie alle sue analisi "profetiche" ci viene il dubbio che la libertà qui prospettata sia una libertà concentrica, imprigionante. Una libertà edonistica, quindi obbligatoria, all'interno di un mondo perfettamente controllato e calibrato dalla tecnologia, uno spazio tutto mediale. Grazie alle nuove tecnologie, come le fibre dette per l'appunto "ottiche", lo schermo della televisione e ancor più quello del computer guida i nostri passi nel cyberspazio. Oggigiorno, lo sguardo biotecnologico, armato di microscopi elettronici o di telescopi sofisticati è riuscito a penetrare nella struttura più intima della materia vivente, visualizzando l'invisibile. Viviamo ormai all'incrocio tra il corporeo e il fattore tecnologico, ed è quindi importante ripensare il nostro vissuto in questo modo: il corpo è una superficie d'incrocio di molteplici e mutevoli codici d'informazione, dal codice genetico fino a quelli dell'informatica. Siamo già arrivati ben oltre il "biopotere" di Michel Foucault: il mondo cyber in cui viviamo ha dissolto l'organico in una serie di flussi elettronici: dalle transazioni bancarie, alle biotecnologie mediche, fino alle più svariate forme di comunicazione. "Il corpo" non c'è più, restano momenti di vissuto biotecnologico, cioè resta il fattore temporale come traccia dell'esperienza. Tutta la libertà possibile è sempre inserita in questa gabbia virtuale da cui nessuno può prescindere, il vivere umano è ormai "macchinizzato" come profetizzavano ad inizio secolo i dadaisti.
Emerge in questi ultimi anni la figura del cyborg. In quanto ibrido, misto di corpo e macchina, il cyborg è una entità che tesse legami, è una figura interattiva che evoca nuovi modi d'interazione, ricettività, comunicazione globale. In quanto tale, il cyborg diffonde e confonde deliberatamente e abbastanza spudoratamente le distinzioni dualistiche che fondano la nostra cultura, quelle tra umano/meccanico; natura/cultura; maschile/femminile; edipico/non-edipico ecc.
La cultura giovanile si è innamorata del cyborg, nella sua accezione più underground e contestataria. D'altronde, il corpo ibrido, grottesco e un po' spaventoso è da sempre celebrato nelle sottoculture rock e punk, come una risposta spiritosa ma anche politica al conformismo sociale del corpo sano, bello, bianco, ben vestito (anch'esso a suo modo totalmente artificiale) e inserito perfettamente nel modello della borghesia post-industriale. Contro questa standardizzazione del vissuto corporeo, e contro il perbenismo interessato e la dignità fatta di vuoto di coloro che stanno sempre con la ragione e mai con il torto, si è levato il movimento cyberpunk in tutta la sua splendida bruttezza.
Noi leghiamo i nostri corpi alle reti alle banche dati e alle autostrade informatiche, e l'opposizione intelligente di oggi è un opposizione che è scesa a patti con la tecnica, perché, "cyber" e "virtuale" fin che vogliamo, è un'opposizione "realista", ...ma siamo sicuri che la passione di Pasolini per il reale, che agli occhi di molti lo condanna ad un'opposizione intransigente e sterile, lo avrebbe allontanato dal regno del virtuale, forma di opposizione come dicevamo prima paradossalmente "realista"? Tutta la produzione è stata permeata da uno "spirito realista" ineliminabile, anche se analizzabile da molteplici punti di vista. Pasolini ha saputo opporre al potere repressivo delle classi egemoni la materialità, la realtà corporea delle classi sottomesse, la fisicità del popolo, spesso rappresentandone letteralmente il corpo, la nudità, il sesso. E' superfluo, a tal proposito, ricordare le sequenze "scandalose" della Trilogia della vita.
Nella Trilogia, Pasolini, ha voluto rappresentare la vitalità passionale del popolare attraverso la pura rappresentazione della corporeità sessuale e non, priva di ogni perversità, allegra, carica di una spontanea e naturale "eversività". Il reale ha sostituito il tentativo borghese del possesso del reale. Attraverso il sesso, il rutto, il peto, Pasolini ha voluto recuperare l'istintiva naturalezza del linguaggio del corpo, in totale opposizione alla cultura sessuofobica della società dei consumi.
Sia l'Amore omosessuale, da lui praticato e che gli consentiva una particolare esperienza "androgina", sia quello eterosessuale sono stati da lui rappresentati come valori, beni liberi da schemi oppressivi, diversità che sono uniche e reali forme di resistenza all'omologazione del potere. Non è un fatto vero che il "suo" reale Pasolini lo avrebbe sacralizzato utilizzando magistralmente quel mondo che deve essere considerato come l'antecedente tecnico-culturale della virtualità? In quel tempo il cinema, la televisione, la stampa, di cui Pasolini era stato il più abile "corsaro", non rappresentavano il mondo virtuale attraverso cui egli propagandava la riscoperta dei corpi e dei luoghi? Il virtuale può essere, ed è, strumento di oppressione del corpo ma può essere anche esaltazione del corporeo in forme assolutamente impensate, il virtuale può ridonarci al corpo. Pasolini si è servito dei mezzi di comunicazione, che sono un prolungamento del corpo, una sua estensione e amplificazione, ma ha anche sottolineato che il corpo, o una sua parte, o una sua caratteristica importante, rischiano l'autoannichilimento in questa operazione. E che non si può affrontarla inconsci dei rischi. Per se e per gli altri.

L'intellettuale non può quindi fare a meno di misurarsi con la tecnica e chi meglio di Pasolini può incarnare questo tipo di intellettuale, dotato com'era di quel febbrile sperimentalismo tecnico che gli consentiva anche di abbandonare qualsiasi tecnica e abbandonarsi all'estro momentaneo sulla scorta di non-attori presi dalla strada.
Pasolini è stato in prima linea negli studi sull'audiovisivo e lo sarebbe stato anche in quelli sulle nuove tecnologie, apportandovi argomentazioni originali, non allineate, inconsuete, "diverse", ma non diverse per vezzo, ma soprattutto perché attente agli emarginati e alle fasce deboli, di cui preservarne la fragilità in quanto qualità, e non limite da cui liberarli.
I personaggi pasoliniani sono infatti rappresentanti privilegiati "di una periferia non operaia, sbandata e incerta (ladri, prostitute, ruffiani, pederasti, pugilatori, disoccupati, sottoccupati, ecc.); le forze positive di questo mondo sono quelle elementari dell'esistenza: anzitutto il sesso, poi gli altri appetiti fondamentali [...]" [Asor Rosa, 1961]. Vogliamo, cioè, ricordare come Pasolini, contrariamente alle odierne lusinghe pluriconvergenti, se a destra fu odiato, a sinistra non ebbe assolutamente vita facile, anche a causa della sua ossessiva e scandalosa voglia di rappresentare la realtà di una fascia sociale marginale, che per definizione sociologica si è posta alla periferia della storia, all'esterno dei processi di lotta per il potere ingaggiata dalle classi centrali: borghesia e proletariato.
Alain Touraine, a proposito delle manifestazioni parigine del 1995, ha scritto: "oggi c'é solo una gioventù depressa, che non vede un'ascesa [...]. É un movimento senza strutture, senza orientamento politico. Esprime soltanto un veto: voi volete buttarci in mare, noi ci aggrappiamo alla barca. [...] c'é tanto odio che mancava nel '68. Dove non c'é ideologia non ci può essere che odio" [Touraine, intervista al Corriere della sera, 1995].
Qui, Pasolini, ha voluto evidenziare e allo stesso tempo stigmatizzare l'aspirazione delle classi subalterne ad una impossibile integrazione con la piccola borghesia. Una ricerca di mobilità sociale umiliante e fatale, un'aspirazione ad una felicità illusoria che in realtà porterà alla realizzazione di un genocidio culturale senza precedenti, che spazzerà completamente il sottoproletariato e la sua subcultura dalle vetrine consumistiche dell'Italia del boom. É questo il nodo centrale della produzione cinematografica e letteraria sul reale di Pasolini.
Il punto essenziale sta però nel riconoscere che il mondo pasoliniano non ha rappresentato una elaborazione naive del personaggio popolano, fondata sull'esaltazione della semplicità, bontà e purezza del borgataro. Esso si è fondato su una precisa analisi socio-antropologica, volta a valutare tutti gli elementi, da quelli più delicati a quelli più feroci, di una cultura in via d'estinzione, specificandone i tratti anticapitalistici e anticonsumistici e non senza una piena e funerea consapevolezza di tutte le dimensioni, anche le più tragiche, dell'essere marginale nel suo porsi, inconsapevolmente, in antitesi rivoluzionaria a quell'ordine borghese-razionale che nell'arco di un decennio ne avrebbe decretato la drammatica fine. La fine della realtà del "cuore" del popolo, il quale, non senza motivazioni private, sensuali, è stato considerato da Pasolini, prima che classe, "folla", "razza". Allo stesso modo, non è da condividere pienamente l'interpretazione, da più parti proposta, di Pasolini come novello Rousseau. Quantomeno credo sia necessario riconoscere che l'ideologia del "buon selvaggio" non ne ha accompagnato tutta la produzione artistica. É sufficiente pensare alle dure invettive di Pasolini contro la ridanciana incoscienza del popolo, che si trasforma in "falsa vitalità" e "nell'allegria non vera di chi non sa né vuole comprendere il mondo [...] che accresce il dolore di chi è vittima della Storia": nessuno ha il diritto d'essere innocente, o indifferente, in un mondo che Pasolini vedeva diventare sempre più consumisticamente spietato e crudele. In questo senso va intesa la sua empatia, da intellettuale colto, raffinato e progressista, per il sottoproletariato, "ferocemente dolce".

Le realtà, è vero, si avvicendano e si deve necessariamente dirigere e governare questi processi inevitabili, anche in maniera pedagogica e progressiva, ma c'è sempre qualche realtà che resta ai margini, sempre più pressata e ghettizzata dalla modernità, se non quando addirittura scompare, e con essa qualcosa va irrimediabilmente perso, qualcosa il cui ricordo Pasolini sentiva di dover in qualche modo salvare, fissare su pellicola prima che fosse troppo tardi, "a futura memoria". L'omologazione sostanziale che per lui accomunava la destra e buona parte della sinistra, e che negli ultimi anni della sua vita sentirà imporsi sempre più prepotentemente, lo porteranno ad esprimersi in maniere via via più apocalittiche, opponendo il suo scandalo privato, la sua rabbia, la sua crudeltà e al tempo stesso il suo candore, allo scandalo pubblico dell'Italia degli anni '70. Opere giornalistiche come gli "Scritti corsari" e le "Lettere Luterane", lo spietato e postumo film "Salò o le 120 giornate di Sodoma", l'incompiuto romanzo "Petrolio" testimoniano il suo profondo pessimismo sulla perdita della sacralità del vivere della società italiana (sacer: nella sua doppia accezione di puro e impuro), sulla profonda nevrosi e apatia in cui era sprofondata la gioventù italiana dopo e forse anche a causa del '68, sull'abitudine alla sessualità come obbligo e non come piacere, sulla falsa tolleranza, sul conformismo e sulla crudeltà ipocrita che si erano diffusi profondamente in tutte le classi sociali.
Ma nonostante ciò, proprio da queste opere si percepisce chiaramente una vitalità, un coraggio e fondamentalmente uno spirito positivo e tattico che non si arrende, che vuole sempre più conoscere, capire e interpretare e quindi un imprevedibile ottimismo di fondo. Gli assassini che lo hanno così brutalmente messo a tacere trenta anni fa, approfittando del suo spirito temerario e passionale, hanno spento una delle voci più alte e più sincere della cultura internazionale di tutti i tempi.
Il grande dono che lascia in eredità è la volontà e la passione e l'attitudine a "pensare" la diversità. A comunicare con la diversità. A mettersi nell'ottica della diversità. Per comprendere meglio la propria.

Il poeta dovrebbe essere sacro.
Alberto Moravia durante l'orazione funebre


Gianfranco Tomei
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