Incontro con Valerio Massimo Manfredi - Archeologia ed attualità.
Roma, 17 giugno 2005, ore 14.45.
Camicia blu, jeans, ciuffo bianco d'ordinanza, Valerio Massimo Manfredi, il famoso scrittore, nonché presentatore di Stargate, arriva puntualissimo all'appuntamento con i suoi lettori, alla libreria Piave di Roma (www.libreriaviapiave.it).
Lo spunto è l'uscita del suo nuovo romanzo, L'impero dei draghi, ma l'aria è più da incontro tra amici. Dopo una mezzora passata a firmare autografi, inizia infatti una chiacchierata informale che arriva a toccare gli argomenti più disparati, dal cinema all'ultimo referendum.
Ma andiamo con ordine. Ad accogliere i lettori ci sono la simpatia e la cordialità di Nicoletta Civita, l'organizzatrice dell'evento, e uno scaffale dove si raccolgono i titoli dell'autore emiliano, da Le paludi di Hesperia a Chimaira, da La torre della solitudine alla trilogia di Aléxandros. Ed è proprio su quest'ultima che si focalizza la maggior parte del discorso, un'opera immensa che è costata a Manfredi nove mesi di lavori ininterrotti, e che è culminata in una notte di settembre con l'epilogo che l'autore declama a memoria, commosso come l'avesse appena scritto. Ed è proprio la notte, racconta, che sembra portare maggiore ispirazione, quando i ritmi del mondo rallentano e lui si chiude in compagnia solo di una buona musica. A differenza degli altri romanzi, che richiedono ricerche approfondite, con Aléxandros non ha dovuto faticare molto. "La storia di Alessandro è nota" ci racconta, anche grazie alle quattro bibbie, Plutarco, Diodoro Siculo, Arriano e Curzio Rufo, che consultava tutte le mattine prima di iniziare a scrivere. Un po' più difficile è stato creare il personaggio di Romolo ne L'ultima legione, visto che le fonti storiche sull'ultimo imperatore romano d'occidente si limitano ad una paginetta scarsa. Stesso discorso per L'impero dei draghi, dove è dovuto ricorrere a consulenti esterni che rileggessero le sua pagine per controllare che la sua descrizione del lontano, e antico, oriente fosse plausibile.
Nonostante sia stato Aléxandros a portargli la fama mondiale (pubblicato in tutto il mondo, tra poco addirittura in Birmania e Thailandia) il suo preferito è però un altro, L'oracolo, un archeo-thriller che prende spunto da eventi cui Manfredi è stato spettatore diretto, ovvero la rivolta degli studenti del Politecnico di Atene del 1973, culminata con un assalto dell'esercito greco, che provocò decine di morti.
Pensando a L'oracolo, la domanda nasce spontanea: se è vero che si ispira ad attori per descrivere fisionomia e gesta dei suoi personaggi (ha più volte detto di aver pensato ad Anthony Hopkins per Ambrosinus de L'ultima legione) a chi pensava quando scrisse dell'Ammiraglio Bògdanos? "Sean Connery" è la risposta, "Anche se ora è forse un po' troppo vecchio per la parte" ammette a malincuore.
Restando al cinema, Manfredi racconta di aver venduto i diritti di più di uno dei suoi romanzi, ma che per ora non è stato realizzato neanche un film. Anche se in Alexander di Oliver Stone ha rivisto più di una somiglianza con la sua trilogia, visto che lui stesso, ben prima di scrivere Aléxandros, lavorò come consulente per il regista americano. Ma forse le attese dei fan saranno presto premiate, visto che personalmente si sta occupando della sceneggiatura de L'impero dei draghi per la De Laurentiis.
Non deve essere facile neanche per una personalità poliedrica come Manfredi dividersi tra libri, cinema e televisione (Stargate chiude i battenti alla fine di giugno per ricominciare a settembre con 15 nuove puntate). Eppure lui ci riesce con insolita bravura e naturalezza, così come colpiscono la sua affabilità e cortesia nell'intrattenersi col pubblico. E pensare che tutto questo è cominciato quasi per gioco, racconta. Dopo il primo tentativo di romanzo abortito dopo sole 12 pagine, devono trascorrere 16 anni prima che un'amica gli proponga di scrivere un libro per una nuova collana, quello che diventerà una bozza de Lo scudo di Talos.
E quando da scrittore si trasforma in lettore? Tra gli Italiani, Manfredi raccomanda Valerio Evangelisti, Carlo Lucarelli e Giuseppe Pontiggia, mentre tra gli stranieri Robin Cook, che tra l'altro è suo grande amico e ha condiviso qualcuna delle sue recenti serate romane.
Alla fine si abbandonano gli argomenti leggeri per entrare più a fondo nel Manfredi-pensiero. Si scopre una personalità molto critica verso il crollo dei valori che sta attraversando la nostra società, persa dietro a dei modelli comportamentali che non stanno "né in cielo né in terra". Il quadro che ne deriva è quasi da caduta dell'occidente, neanche a dipingerlo fosse stata la Fallaci. In realtà la soluzione che identifica è molto semplice: dare il buon esempio insegnando, attraverso il passaparola, quali sono le cose veramente importanti. D'altro canto la sua fiducia negli Italiani è pressoché sconfinata: se siamo sopravvissuti al dopoguerra, riusciremo a sopravvivere anche a questo.
Lo spunto per un paragone con il nostro passato è maturo, e Manfredi si getta in un'appassionata esaltazione del mondo romano, che ha raggiunto livelli che saranno dimenticati per più di un millennio. "Vi siete mai chiesti perché a Roma non ci fu mai la peste?" chiede, "Perché si lavavano". Alla reggia di Versailles, nell'ottocento, andavano in giro con i pitali, mentre gli acquedotti romani portavano acqua fino alle fontane nelle città, dove chiunque poteva servirsene. E sarebbe bastato qualche piccolissimo accorgimento tecnico moderno per portare l'acqua fin nelle case della gente.
Insomma, è arrivato il momento di rimboccarci le maniche per non sfigurare né di fronte ai nostri antenati né di fronte alle generazioni future!
Guglielmo da Baskerville
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